domenica 18 febbraio 2024

La confessione

L'Istituto Nazareth era una scuola religiosa gestita da monache ed era ubicato su due piani di un grande, antico palazzo al Calascione. L'asilo e la scuola elementare occupavano il piano terra. Le grosse stanze che fungevano da aule affacciavano su due vaste terrazze che abbracciavano due lati dell'isolato. Al piano terra c'erano inoltre la cappella, il refettorio per le bambine che facevano il doposcuola, la presidenza, la stanza dei professori, l'economato. C'era anche un giardino con aiuole ormai cementate che ospitavano uno splendido, enorme albero della canfora, e qualche rachitico, malato e malandato albero di arance selvatico.

Al primo piano che si raggiungeva tramite una lunga scalinata erano alloggiate le "grandi". Infatti, dalle medie al ginnasio e al liceo, le alunne passavano al piano superiore. Tante stanza in fila, adibite ad aule, si raggiungevano passando in un corridoio ad elle, sul quale davano tutte le porte. Nell'ultima stanza, che affacciava sul giardino sottostante, c'erano i gabinetti. Un lavandino unico, stretto e lungo, che sembrava un abbeveratoio per le mandrie, era sormontato da vari rubinetti distanziati dai quali usciva soltanto acqua gelata. Poi c'erano tre gabinetti in fila, separati da pareti di Bruckner. La parte superiore non aveva soffitto.

Avevo dieci anni. Ero magrissima, leggera e agile. Mi venne in mente di fare uno scherzo. Entrai in uno dei gabinetti, mi chiusi dentro con il lucchetto (uno di quelli che si chiudevano facendo entrare la fascetta metallica in un passante di ferro), misi un piede sul bordo del water, con una certa difficoltà salii con l'altro piede sul pomo della maniglia, e a forza di braccia riuscii a tirarmi su aggrappandomi nell'angolo di una delle pareti divisorie. Mi accertai che non mi avesse visto nessuno e mi lasciai scivolare fuori.

Dopo una mezz'ora circa, dalla mia classe, sentimmo delle voci allarmate. Qualcuno aveva scoperto che uno dei gabinetti era chiuso dall'interno e che, pur bussando, nessuno rispondeva.

"IL PANICO!"

La vecchia Madre Superiora, agitatissima, chiese a tutte le insegnanti di fare l'appello e vedere chi potesse mancare. La vicepreside cercava disperatamente senza trovarlo il factotum della scuola : bassino, imberbe, leggermente sovrappeso, era uno di quei personaggi senza età e dal sesso incerto (scelto forse per evitare di cadere in tentazione) che spesso ruotano intorno alle comunità ecclesiastiche e religiose.

Una delle monache, più "ardita" delle altre, si offrì di salire su una scala e di affacciarsi dall'alto. La proposta fu accettata. Noi tutte partecipavamo con trepidazione, e vedevamo questa decina di monache che, affannatissime, camminavano avanti e indietro nel corridoio, scontrandosi come formiche impazzite. Finalmente l'ardita salì lentamente sulla scala, che era sorretta da tutte le sue agitatissime colleghe, con le braccia alzate. E mentre il sollievo fu grande perché si scopri che nessuna alunna era rimasta chiusa dentro, né si era sentita male, adesso nessuno poteva spiegarsi come il lucchetto avesse potuto chiudersi da solo.

Dopo qualche giorno arrivò un prete, che non potendo venire a benedire i... gabinetti, fu costretto a benedire anche tutte le classi e noi alunne. Le suore, pensando che forse qualcuna di noi fosse indemoniata, se avessero potuto ci avrebbero fatto esorcizzare. Intanto il famoso factotum, tornato da una commissione e messo rapidamente al corrente dell'accaduto, si calò a fatica dall'alto nello spazio ristretto, e aprí finalmente il lucchetto, facendosi anche lui le croci. Venne anche un falegname, che segò la parte bassa della porta di una ventina di centimetri.

Il prete che venne a benedire era il nostro parroco : un giovane sacerdote che veniva da un paese dell'avellinese e che mi conosceva bene, anche perché ogni domenica, dopo la messa, con mio padre, mia madre e mio fratello, andavamo in sacrestia a salutarlo. Mentre aspettavamo che si cambiasse, io notavo sempre un orrendo cuscino che occupava la seduta della sua poltrona. Era un cuscino rotondo, di seta grezza con un volant tutto intorno, e al centro c'erano tre papaveri rossi tutti aperti e un bocciolo verde, ricamati a punto a croce e a punto pieno.

C'era una certa signora della aristocrazia napoletana, molto riconoscente a mia nonna (non so perché), che ogni Natale la omaggiava di un cuscino fatto da lei e ad ogni pasqua le mandava un dolce tosto da morire, che sapeva di bicarbonato. I dolci, bene o male, venivano fatti fuori da me e da mio fratello, ma i cuscini erano sempre talmente brutti da non poter essere neppure riciclati. Ma questo, brutto come e forse più degli altri, fu destinato al nostro parroco che, per dimostrare di aver gradito, fu costretto a tenerlo in vista.

Ogni primo venerdì del mese tutte noi, in fila per due, e con in testa i veli bianchi, accompagnate dalle monache, andavamo a prendere la comunione alla chiesa di Santa Maria degli Angeli. Il giorno prima il nostro parroco era venuto al Nazareth a confessarci. Alla fine della mia confessione, dove gli raccontavo che avevo litigato con una compagna, che avevo risposto male a mia madre, che avevo detto una bugia e altri peccati veniali, lui mi domandava : "Sei sicura di non avere altro da confessare?" - "No", rispondevo io, che invece avevo il mariuolo in corpo.

Al piano inferiore, in fondo ad un corridoio cieco e poco illuminato, c'era un poster gigante che rappresentava un triangolo con all'interno un unico occhio che sembrava guardarmi da qualsiasi direzione io venissi e sotto, a lettere cubitali, c'era scritto "DIO TI VEDE".

Mi aveva sempre impressionato quell'occhio, e quando passavo da lì chiudevo gli occhi e passavo di corsa. Figuriamoci adesso!

Il secondo mese, alla confessione successiva, quando il prete mi chiese ancora una volta se avevo altro da confessare, fui io a chiedergli: "Se le dico una cosa, mi giura che non lo dirà mai a nessuno?". Lui si alterò, e mi rimproverò dicendomi che giurare è peccato, e che oltretutto io avrei dovuto sapere che la confessione è un segreto tra il peccatore e il prete. E allora io, in parte confortata, raccontai che non c'era stata alcuna diavoleria, ma che ero stata io a chiudere la porta del gabinetto per movimentare un po' la giornata. Il mio parroco, per penitenza, mi fece recitare una caterva di avemaría e paternoster, ma ebbi l'impressione che la cosa lo avesse un po' divertito. Aspettò che io finissi le mie preghiere, si venne a sedere vicino a me, mi fece ancora una ramanzina, e poi volle sapere come avevo fatto. Da allora, ogni volta che mi incontrava in chiesa da lui, o per strada, o al Nazareth, mi salutava e avevo sempre l'impressione che gli scoppiasse da ridere. 


La mia prima elementare al Nazareth


giovedì 19 ottobre 2023

il Carcere di Procida

Li vedevamo.
Almeno un paio di volte, in estate, con il gozzo di Mario o con quello si Sasà, ci imbarcavamo a Giuseppone e raggiungevamo Procida. La nostra era una bella comitiva di ragazzi semplici ed entusiasti. La meta era sempre quella : andavamo ad ancorarci oltre il ponte di Vivara, lasciandoci a destra questa mezzaluna di terra, disabitata e miracolosamente scampata all'assalto edilizio. Per arrivarci passavamo sotto al Castello che torreggiava in alto maestoso e inquietante. E li vedevamo.
Si accalcavano alle finestre con le inferriate doppie, richiamavano la nostra attenzione con suoni gutturali, sventolavano asciugamani, teli, camicie, per salutarci. Data l'altezza del castello non potevamo riconoscerli. Vedevamo soltanto le loro sagome che si alternavano davanti alle finestre. Rispondevamo al loro saluto con superficialità, come fosse un gioco. 
In quei momenti nessuno di noi forse pensava che per questi poveri reclusi la bellezza della vista che potevano godere dall'alto e il nostro passaggio spensierato sotto le loro celle potesse aggiungere un'ulteriore pena per la loro privazione della loro libertà. Né pensavamo, noi privilegiati, che ognuno di loro potesse avere avuto un trascorso di miseria, violenza, degrado.

Facevamo il bagno in questo mare pulitissimo (ricordo che legavamo con una sagola le bottiglie di acqua e di 
birra e le lasciavamo affondare per tirarle su belle fresche) e al tramonto tornavamo a Posillipo affrontando (!) il canale di Procida del quale allora tutti avevano timore sia per il traffico di natanti che per le correnti a volte impreviste.

Lavoravo in piscina alla Mostra D'oltremare e dopo il lavoro giravo per gli stand quando c'era la fiera della casa. Con mia sorpresa nella prima edizione, in uno degli stand erano esposti i lavori dei detenuti di Procida. Tovagliati di lino e di canapa, tende e lenzuola di fattura egregia. C'erano tre o quattro reclusi in permesso premio, accompagnati dalle guardie carcerarie. Sedevano dietro ai loro lavori esposti, e avevano lo sguardo triste e smarrito. Comprai quello che potevo, feci loro una gran pubblicità. Parlando con loro seppi che oltre al lavoro ai telai c'erano i tintori, i falegnami, i calzolai, i sarti che cucivano le divise per guardie e carcerati, e c'era anche una legatoria che lavorava per l'esterno.
Imbarazzata e un po' in soggezione parlai con uno di loro. La guardia che lo accompagnava mi raccontò che molte ragazze dell'isola usavano ordinare il loro corredo da sposa ai detenuti. C'era poi una giornata alla settimana in cui gli isolani potevano accedere all'enorme cortile del castello e comperare la frutta, le verdure, e i legumi che altri reclusi coltivavano nel grande orto alle spalle della facciata che si vedeva dal mare. 

Nel 1988 il carcere di Terra Murata è stato definitivamente chiuso, ed è stato acquisito dal comune di Procida, ma io adesso continuo a pensare agli ergastolani (pochi, ma c'erano anche quelli) che hanno visto per l'ultima volta lo spettacolo colorato della Corricella prima che il portone per loro si chiudesse per sempre.






 


mercoledì 20 settembre 2023

Con gli occhi del cuore...

I ricordi sono ormai sempre più lontani nel tempo, ma sempre più presenti nella memoria. Spesso il mio pensiero torna a Giuseppone dove ho trascorso gli anni più felici della mia ormai lunga vita. Allora rivedo uno specchio d'acqua roseo e tranquillo al tramonto, i gozzi di Totonno, di Mario, di Gogo, di Sasà, di Ninì Marra, il Buci di Geppino Mauro (signor Buci per i pescatori) - tutti allineati davanti alla scogliera -, e a chiudere il cabinato bianco e rosso dell'avvocato Marandola.

Come in tanti fotogrammi rivedo Barbetta, che solo e in silenzio, con il mento sollevato, scruta l'orizzonte; Giovannina, che con la sua stazza occupa tutto il vano della finestra, Bastiano che dirige il traffico col fischietto, Luciano che vende le cozze vicino alla fontana, Chiuvillo assorto nei suoi pensieri, 'Zi Peppe seduto in barca con la sua canuzza Maruzzella, Stratuccio che sistema i canotti, Totonno e Michele che discutono seduti su un cassone che contiene cime e ancore.

Affacciata alla finestra della verandina c'è Zia Emma, mentre Zia Nannina, sempre sorridente, mi saluta dall'uscio della sua stanza. Mariella, col marito Raffaele, mi invita come sempre a prendere il caffè, Antonio Preziosi, fine carpentiere, insieme ai suoi nipoti, sta dando le ultime rifiniture ad una barca; Rosa, circondata da tutti i suoi bellissimi bambini, Annamaria che riprende il figlio Pasquale, Carminiello che pompa l'acqua dal motoscafo che gli è stato affidato, Bob con la strana imbarcazione che ha costruito da solo, Vincenzo Manomozza, seduto sul terrazzino con la moglie Concettina, a godere la luce del tramonto...

Tutti ai loro posti, come pastori del presepe, dove ognuno occupa il proprio spazio.

Intanto, con il loro canotto grigio, rientrano remando, in piedi e con un remo ciascuno, i Tripolini, reduci da una giornata di pesca, e subito dopo Luigi del Casale, che al mattino si ripara dal sole con un vecchio borsalino di mio padre, sotto al quale tiene i ranci felloni per catturare i polipi. 

Guardo tutto con gli occhi del cuore, come dice la mia amica Carmela Cafarelli, e il ricordo di quella atmosfera di pace mi fa sorridere e mi rasserena.



sabato 4 marzo 2023

La Birreria Marchese

A Piazza Sannazaro, alla destra della galleria venendo dal viale Gramsci, che una volta si chiamava viale Elena, esisteva una birreria. Una targa rettangolare scura, posizionata in verticale, rappresentava un cameriere con i capelli e il camice bianco con cravattino nero che reggeva in mano due boccali di birra traboccanti di spuma. Non poteva passare inosservata, ed era il richiamo per la Birreria Marchese.
Era questa allocata in un piccolo vano, e dall'esterno si vedevano sulla destra degli enormi distributori di birra che veniva servita alla spina. Il proprietario, il signor Marchese, aveva due figlie, due belle ragazze, una bionda e una bruna. La bionda, forse più grande, più sicura di sé, riempiva velocemente i boccali all'interno del locale; la bruna, più timida, prendeva le ordinazioni per le caponate che si gustavano fuori, all'aperto, sui tavolini pieghevoli a listelli di legno che occupavano i pochi metri liberi avanti all'ingresso del locale. 
Le "marchesine" erano ragazze serie, che tenevano a bada con ferma cortesia i giovanotti e i loro sguardi di ammirazione.

Avevo forse sedici anni, quando insieme ai miei compagni di comitiva ci spingemmo fino a Mergellina, dove per la prima volta assaggiai un bicchiere di birra, trovandolo amaro e non capendo, allora, come potesse piacere.
Passammo poi fra i tavolini, dove persone semplici e pescatori apprezzavano freselle rotonde con il buco al centro, inumidite per spugnarle e condite con pomodoro fresco, insalata verde, rucola, olive nere, olio e acciughe.
Ricordo che comprammo l'altra specialità della birreria: i taralli napoletani -quelli con la sugna, il pepe e le mandorle- che andammo a rosicchiare affacciandoci sulla spiaggetta di Sermoneta, per poi raggiungere la fermata del filobus che ci avrebbe riportato a casa.






mercoledì 14 dicembre 2022

I Lignano seniores. Le vacanze serene di una coppia affiatata

Dedicato a Marco, Alberto, Irene, Silvana e Nando


Marito e moglie, posillipini autentici.
A metà mattinata scendevano a Riva Fiorita con la loro utilitaria e la riponevano nella grotta-parcheggio dove l'avrebbero ritrovata fresca al loro ritorno.
Il marito prendeva dall'auto la tanica con la nafta e si recava da Zì Rafele, che lo aspettava sulla banchina a fianco alle docce per consegnargli i remi e l'ancora che aveva custodito in una delle cabine sotto la terrazza, e poi lo traghettava sulla barca. La signora, intanto, si era recata sulla spiaggia, e salutava innanzitutto sua figlia, il nipotino e il genero, che invece scendevano a mare la mattina presto. Poi c'era un rapido giro di saluti a tutta la prima fila di ombrelloni, impiantati quasi sul bagnasciuga.
Intanto suo marito, con un pantaloncino candido e un cappello bianco di stoffa con le falde, dopo aver travasato la nafta nel serbatoio del fuoribordo, e aver fatto partire il motore, sganciava la cima dal passacavi e prelevava dalla spiaggia la moglie e il nipote.
Il ragazzino biondo, longilineo, con una perfetta abbronzatura dorata, raggiante di felicità raccoglieva maschera e pinne e saliva sulla barca del nonno. Sapeva che, superata la scogliera di villa Rosebery, seduto accanto al papà di sua madre, questi gli avrebbe permesso di tenere il timone. La nonna, liberatasi dalla vestaglietta di cotone, sedeva beata a prua nel suo costume nero. Passavano lentamente sotto costa, accompagnati dal lieve borbottio del fuoribordo, e godevano appieno la "bella giornata" di cui parla La Capria.
Uno, due, tanti bagni, dove più gradivano, e tappa nella calma baia di Trentaremi per uno spuntino portato da casa. 
Nel percorso inverso spesso arrivavano fino a palazzo Donn'Anna, e rientravano poi appagati e trionfanti nel porticciolo di Riva Fiorita. Una volta arrivati a casa, mentre stendevano ad asciugare i teli e i costumi dopo averli sciacquati, si affacciavano al balcone per vedere di nuovo il mare, perché ai posillipini veri il mare... Non basta mai.





lunedì 7 novembre 2022

Nostalgia

A Posillipo, sia in estate che in inverno dormivo con la finestra aperta.

L'aria pura mi portava odore di mare, di salsedine, di resina, dei gerani della ringhiera, dei gelsomini della terrazza. Il mio olfatto allenato, fra tutti questi profumi, percepiva perfino l'odore ormai familiare del tufo umido delle grotte sulle quali si ergeva la villa. 
Quando c'era vento sentivo gli alberi che ondeggiavano cigolando, e già sapevo che l'indomani avremmo trovato nei viali tante pigne cadute insieme ai ciuffi più teneri degli aghi di pino.

Alle sette Michele il portiere faceva il giro delle case e ci portava il pane e il giornale. Poi iniziava il passaggio degli operai che scendevano in fila indiana lungo le strette scalette che portavano al mare. Tutti loro raggiungevano il cantiere tagliando per Villa Gallotti, anziché per la discesa di Giuseppone, che avrebbe allungato di parecchio il loro cammino.
Intanto i pescatori con i gozzi, i cui motori sembravano borbottare nel silenzio, si ritiravano dalla pesca notturna ed erano sempre seguiti da uno stormo di gabbiani che faceva in aria un allegro girotondo attorno alla poppa. 
Altri gabbiani volteggiavano in alto, emettendo grida rauche, e a seconda dell'inclinazione del loro volo, macchiavano momentaneamente di bianco e di grigio il cielo turchino.

Il Vesuvio come sempre si manifestava nella sua imponenza e nella sua maestosità. 
Con questi ritmi, con questa armonia, con tutta questa bellezza, aveva inizio un'altra giornata.

Riva Fiorita in una cartolina degli anni '60. In alto a Sinistra Villa Fernandes - Foto da Internet


sabato 8 ottobre 2022

Il Cinema Posillipo

Nel 1961, a Posillipo ci fu una grossa novità.

Di fronte a villa Costa, accanto all'edicola di Antonio il giornalaio, si vedevano da mesi lavorare degli operai nella campagna sotto la strada. Le persone erano piuttosto incuriosite, finché qualcuno azzardò che stessero costruendo nientemeno che un cinema.
I posillipini non erano molto cinefili, anche perché allora andare al cinema significava "scendere a Napoli", e la pigrizia aveva spesso il sopravvento. La sala cinematografica più vicina era il Maximun, nella traversa di fronte agli imbarchi degli aliscafi a Mergellina, e quando un film riceveva vari commenti positivi dalla critica, ci si accontentava a volte di vederlo lì, anche se in terza visione.

Dopo qualche tempo arrivò effettivamente il giorno dell'inaugurazione. 
Il Cinema Posillipo dalla strada non si vedeva. Si varcava un cancello e a sinistra due rampe di scale portavano giù al minuscolo botteghino e a quattro file di seggiolini nascosti da una pesante tenda, che formavano il loggione; scendendo ancora si arrivava alla sala. Dietro al vetro del botteghino si alternava la coppia dei proprietari, ed era sempre presente un bel gattone bianco con un fiocco rosso. 
Il cinema era stato costruito su tre terrazzamenti della campagna sottostante via Posillipo, lo schermo si trovava al centro di due enormi vetrate, dalle quali si vedevano i grossi tronchi di due giganteschi pini (fortunatamente risparmiati dai lavori), mentre le loro cime svettavano ben oltre la costruzione. Il tutto era molto scenografico, ma in estate la luce eccessiva del tramonto (ora della prima proiezione) disturbava la visione dello schermo; mentre in inverno i due finestroni, anche se venivano chiusi, lasciavano passare spifferi e gelo.
Il cinema non era mai affollatissimo, ma incontrò anche perché proiettava anche film classici che alcuni potevano avere piacere di rivedere, o film leggeri per sorridere, o western. L'atmosfera era familiare e casareccia.
Si andava al cinema senza cambiarsi d'abito, a differenza di come si sarebbe fatto in città. I più freddolosi in inverno portavano un plaid da poggiare sulle gambe, per ripararsi dal freddo; qualcuno si presentava addirittura con la borsa dell'acqua calda. Altri provvedevano a portare da casa dei cuscini da adattare sugli scuri, scomodissimi sedili in legno dalla seduta ribaltabile. 
C'era una signora che abitava di fronte al cinema, che fra il primo e il secondo tempo del film correva a casa a spegnere il forno dove aveva messo a cuocere la cena, e si raccomandava di aspettarla per riprendere la proiezione. E l'aspettavano!
Lei, trafelata, ritornava ringraziando tutti.

Un'altra volta, in estate, mi trovai con due sorelle che dopo il film dovevano andare a una cena. Vennero al cinema con due fazzolettoni che coprivano le loro teste piene di bigodini. Nelle due ore di proiezione i capelli si sarebbero asciugati da soli. 

Ricordo la maschera: un signore alto, magro, pelato, con la faccia lunga e gli occhi vicini vicini. Gentilissimo, faceva entrare in sala se c'era da fare una imbasciata urgente a qualcuno degli spettatori, che risultava presente perché aveva lasciato la macchina fuori.

Che tempi irripetibili... 

Il cinema Posillipo - foto da internet